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La mia rubrica personale

La Rivincita della Semplicità: l'alimentazione tra passato e presente

Sin dalla più remota antichità fino all’inizio della rivoluzione industriale, si sono sempre consumati lo stesso genere e quantità di alimenti, fatte salve le situazioni riguardanti le popolazioni che vivevano vicino al mare o in montagna o con diversi contesti idrogeologici e climatici.

I primi uomini nomadi, cacciatori e raccoglitori, si nutrivano prevalentemente di bacche e frutti selvatici, radici e tuberi, oltre ai proventi della caccia. Con la diffusione dell’agricoltura, circa dodicimila anni fa, e la maggiore stanzialità delle popolazioni, le riserve fornite dai cereali permisero un rilevante sviluppo demografico.

Ma che cosa mangiavano i nostri antenati?

Mediamente il 50% di ortaggi e frutta, il 30% di cereali e il 20% di cibi proteici, suddivisi in leguminose, formaggi, uova, carne e/o pesce. La carne, nella civiltà greca e soprattutto in quella romana, era soltanto di uso sporadico, legato a occasioni religiose e sacrificali. Il cibo contadino antico è quello che più ha resistito nell’evoluzione delle modificazioni alimentari. Questo aspetto ancora resiste in rare popolazioni rurali che vivono ai confini della civiltà.

Dalla fine del Settecento si cominciò a diffondere in Europa il succo essiccato, e più o meno raffinato, della canna da zucchero, già noto sin dal Medioevo ma che, nei secoli successivi, ebbe la funzione di addolcire due bevande in uso presso l’aristocrazia del tempo: il caffè e il cioccolato.

La raffinazione delle farine

Ma fu con la metà dell’Ottocento che i tradizionali mulini a pietra furono gradualmente sostituiti da quelli meccanici a pale metalliche che permettevano di assecondare la diffusa richiesta della raffinazione dei cereali.

La farina, sempre più bianca, non soltanto era di moda per i palati raffinati ma si conservava anche meglio e più a lungo di quella integrale, in quanto la parte grassa del germe veniva eliminata assieme alla crusca. Nonostante alcuni problemi legati alla raffinazione cominciassero a manifestarsi sin dall’inizio, tale procedura continuò imperterrita sino ai suoi gradi più estremi.

La completa purificazione dei cereali, infatti, eliminando le “inutili” fibre, porta anche a un’assimilazione pressoché totale da parte dell’organismo, con gravi conseguenze metaboliche

Piano piano, in modo silenzioso e poco evidente, gli alimenti di uso comune sono stati sempre più impoveriti del loro contenuto biologico, snaturati, inquinati, grazie alla rivoluzione biotecnologica in agricoltura. E questo senza contare la comparsa sulla scena alimentare di cibi nuovi, totalmente artificiali, come tanti dolcetti per bambini, formaggini, bevande gassate e colorate di ogni tipo. La maggior parte di questi cibi è “studiata a tavolino” per rispondere ai nostri gusti ormai completamente omologati e per spingerci a mangiare ancora di più in ottemperanza alle leggi del profitto. Poco importa delle conseguenze sulla salute. Tutti gli organismi sanitari sanno che le cattive abitudini alimentari incidono per più del 30% sulla comparsa di patologie tumorali e cardiovascolari, e per oltre il 50% di quelle metaboliche (come obesità e diabete), cutanee e digestive, ma nessuno ha mai posto in essere interventi per modificare anche minimamente questa situazione.

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La storia ci insegna che tutto si evolve, tutto cambia e si modifica con il tempo, seguendo le mode, i contesti sociali, e le necessità oggettive che regolano la vita delle persone. Il cibo rappresenta senza ombra di dubbio uno dei settori più attivi in quanto a evoluzioni e modifiche, soprattutto nell’ultimo decennio, periodo nel quale si sono affacciate al mondo nuove filosofie gastronomiche più o meno estreme.

Ma facciamo un salto indietro, negli anni ’70, la cucina regionale era la più richiesta, proposta in modo semplice e sempre uguale. La voglia di cambiamento era sempre più presente nelle cucine e negli intenti di alcuni nomi noti del settore della cucina e della ristorazione, come Luigi Carnacina, Angelo Paracucchi, Gualtiero Marchesi e Luigi Veronelli. 

A loro si deve il primo passo verso il termine che ha iniziato a rivoluzionare la cucina italiana di alcuni decenni fa e che continua ad accompagnare la cucina attuale: innovazione. Un passo cercato, voluto, necessario, probabilmente fisiologico. Si iniziano così a trasmettere alla cucina italiana i primi messaggi del “nuovo in cucina”.

Da quel momento in poi l’evoluzione culinaria ha iniziato il suo articolato cammino, costante, gentile, a tratti entusiasmante. Si cercava di fare ristorazione con un’attenzione molto diversa anche nei confronti degli aspetti salutistici del cibo, con cotture poco invasive, piatti “più leggeri”, adatti a uno stile di vita molto diverso da quello di qualche decennio prima.

Così, anno dopo anno, la voglia di uscire dall’usuale e di interpretare il cibo è cresciuta fino a dar vita alle ultime filosofie culinarie che, dall’inizio del 2000, hanno cambiato anche profondamente il modo di mangiare e di approcciarsi al cibo, portando però l’intero settore della ristorazione a esprimersi con preparazioni e compresi da chiunque. Così, all’inizio del terzo millennio, fanno capolino nel panorama della ristorazione internazionale le cucine cosiddette fusion, destrutturata e molecolare. Termini e linguaggi sconosciuti ai più, ma subito adottati da molti chef, in prevalenza giovani, che hanno visto in queste nuove filosofie prestigiosi e gloriosi traguardi.

La cultura del cibo è cresciuta ma non così tanto come ci vorrebbero far credere i media e a essere sinceri, se il vino segna un bel balzo in avanti in quanto a conoscenza, il resto del cibo sembra soffrire ancora di una mancanza di cultura, diffusa e discretamente profonda. Si fa presto a dire “formaggio” o “salume”, “Chianina” o “Romagnola”, ma quante persone sono in grado di capire la reale qualità di questi prodotti prima di acquistarli o una volta trasformati in un piatto?

Qualche passo in più però è stato fatto e per fortuna: termini come “filiera controllata o corta”, “Km 0”, “biologico” e “biodinamico” sono entrati nel vocabolario di molte persone, l’attenzione nei confronti del cibo è cresciuta e la ristorazione, complice anche la crisi economica o forse perché era proprio arrivato il momento di cambiare, ha iniziato a modificarsi, lentamente ma inesorabilmente. Dal ristorante stellato all’osteria il messaggio è chiaro: “ritorno alle origini”, ritorno ai sapori che ciascun territorio è in grado di offrire. Identità gastronomica, attraverso le produzioni, fedeli alle stagioni, raccontando nei piatti storie antiche, piacevolmente interpretate in chiave moderna. Insomma, attualizzare il piacere del cibo mettendo bene a fuoco le radici di ciascuna regione, la sua storia, i suoi aneddoti.

Ed ecco che insieme a questa voglia di ritorno al passato tornano alla luce i cibi di strada, veri e propri gioielli di sapore e semplicità, rimasti per tanti anni nascosti ma mai scomparsi,

all’ombra dell’innovazione gastronomica. All’improvviso si scopre quel vaso di Pandora pieno di colori, odori, sapori, rituali e storia che hanno fatto grande la cucina italiana nel mondo ed ecco che tanti castelli costruiti in modo ardito su sofisticate architetture culinarie iniziano a traballare e sempre più consumatori, estimatori e anche esperti di cibo iniziano a rimpiangere un’identità, un’appartenenza e una riconoscibilità del cibo legato al territorio di origine, che le ultime “mode alimentari” hanno messo in ombra per diversi anni.

 

La rivincita della semplicità”: potremmo definire così questo movimento “lento” che sta facendo riappropriare le persone di odori e sapori schietti, tanti e diversi, che da nord a sud sembrano aver riacceso l’entusiasmo nelle persone che avevano quasi smesso di frequentare ristoranti.

 

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